Retelegale

Lettori fissi

giovedì 24 giugno 2010
Con le sentenze in esame la Corte di Cassazione a sezioni unite ribadisce alcuni importanti principi:
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
giovedì 1 aprile 2010
La materia delle espropriazioni per pubblica utilità è una delle più delicate e complesse del diritto amministrativo, con risvolti significativi di diritto civile ed interferenze da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Vi è il coinvolgimento di numerosi principi ed interessi costituzionalmente rilevanti. Vengono in considerazione aspetti di notevole rilievo sociale e di finanza pubblica.
Il provvedimento espropriativo costituisce la forma più incisiva di esplicazione del potere ablatorio, divenuto strumento insostituibile per realizzare opere pubbliche e attuare una equilibrata e corretta pianificazione urbanistica e industriale.
Infatti: «L’espropriazione consiste nel trasferimento coattivo, per ragioni di pubblico interesse, della proprietà o di altro diritto reale su un bene privato a favore della pubblica amministrazione, con la conseguente conversione del diritto reale dell’espropriato in un diritto di credito ad una somma di denaro a titolo d’indennità».
L’istituto in parola può essere utilizzato in realtà anche per interventi diversi dalle opere pubbliche, come nel caso di acquisizione, a beneficio della collettività, di immobili per i quali non è prevista una concreta trasformazione o alterazione, oppure nel caso di esproprio di aree a favore dei privati per interventi produttivi.
La posizione dell’espropriante è assimilabile a quella di un acquirente a titolo originario. Ciò comporta che l’espropriante acquista il bene libero da ogni peso (servitù, ipoteca, enfiteusi, onere reale) gravante sul bene e che gli eventuali diritti di terzi sul bene si risolvono nell’indennità.
In sostanza il diritto alla proprietà privata, che è originariamente perfetto, viene a tramutarsi -in virtù di un pubblico interesse- in un diritto affievolito. È pacifico che, trattandosi di limitazioni di diritti individuali, in conformità dei principi vigenti nel nostro ordinamento costituzionale, sia richiesta una legge, in quanto l’autorità pubblica non potrebbe procedere all’espropriazione se a ciò non fosse autorizzata dal legislatore. Il diritto di proprietà pertanto è riconosciuto come diritto di disporre e godere delle cose che ne sono oggetto da parte di un singolo individuo, sino a che non si verifichi contrasto con un interesse pubblico. In questo caso esso degrada ad interesse legittimo, essendo riconosciuto dall’ordinamento giuridico non tanto e non solo per lo sviluppo e il benessere del singolo, ma essenzialmente per lo sviluppo e il benessere della collettività.
Le regole per procedere ad una espropriazione legittima sono attualmente inserite nel testo unico espropri (d.p.r. 327/2001-dlgs 2002 n. 302 e succ. modifiche ed integrazioni) e nella legislazione regionale. I vari titolari dei beni oggetto di esproprio hanno diritto, come detto, ad indennità. In particolare, il testo unico espropri disciplina all'art. 36 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio per la realizzazione di opere private che non consistano in abitazioni dell'edilizia residenziale pubblica; all'art. 37 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile; all'art. 38 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area legittimamente edificata; all'art. 40 la determinazione dell'indennità di aree agricole. Sono previste inoltre, in particolari ipotesi, maggiorazioni ed indennità aggiuntive.
Quando, invece, le regole sopra menzionate non sono rispettate, si vengono a perpetrare espropriazioni illegittime. In questi casi il legislatore ha introdotto una complessa normativa che, sostanzialmente, consente l'emanazione di un provvedimento amministrativo di acquisizione del bene per sanare la commessa illegittimità. Infatti, qualora l'opera sia stata realizzata in assenza di un valido decreto di esproprio, l'art. 43 del testo unico espropri attribuisce all'amministrazione il potere di acquisire l'area al proprio patrimonio indisponibile e all'espropriato il diritto al risarcimento del danno, salvo il sindacato in sede giurisdizionale del provvedimento di acquisizione ed, in casi eccezionali e residuali, la restituzione dei beni ai proprietari espropriati. L'art. 43 è dunque applicabile quando mancano fin dall'origine i provvedimenti ablatori legittimi o gli stessi risultano comunque viziati, perciò annullabili davanti al giudice amministrativo.
Nell'ambito del parere del Consiglio di Stato n. 4 del 2001 (che ha redatto lo schema del testo unico espropri) vengono evidenziate le ragioni che hanno portato alla nascita dell'art. 43 testo unico espropri. In particolare viene affermato che l’articolo 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, dell'occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà. Vi è la necessità di adeguarsi ai principi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96, ha affermato che l’istituto pretorio affermatosi nell’ordinamento italiano è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In concreto l’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno) in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale.
L'art. 43 verrebbe dunque a superare definitivamente, secondo il Consiglio di Stato, l'istituto delineato dall'ormai storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 1464 del 1983: “Nelle ipotesi in cui la Pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito”.
In dettaglio.
L'art. 43, rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, prevede che, valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, possa disporre che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. In particolare l'atto di acquisizione:
a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio;
b) dà atto delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area indicando, ove risulti, la data dalla quale essa si è verificata;
c) determina la misura del risarcimento del danno e ne dispone il pagamento, entro il termine di trenta giorni, senza pregiudizio per l'eventuale azione già proposta;
d) è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili;
e) comporta il passaggio del diritto di proprietà;
f) è trascritto senza indugio presso l'ufficio dei registri immobiliari;
g) è trasmesso all'ufficio competente per l'aggiornamento degli elenchi degli atti che dichiarano la pubblica utilità (istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2 t.u. espr.).
Qualora sia impugnato il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera o il decreto di esproprio, ovvero sia esercitata un'azione volta alla restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso in cui riconosca fondato il ricorso o la domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo.
Qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia pronunciato la condanna al risarcimento del danno, l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto risarcimento del danno. Il decreto è trascritto nei registri immobiliari a cura e spese della medesima autorità.
Viene precisato che le disposizioni menzionate si applicano, in quanto compatibili, anche quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, nonché quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale.
L'art. 43 comma 6 t.u. espr. prevede espressamente che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, il risarcimento del danno deve essere determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Il d.lgs. n. 302/2002 ha inserito il comma 6 bis nell'art. 43 t.u. espr., prevedendo che, ai sensi dell'articolo 3 della legge 1 agosto 2002, n. 166, l'autorità espropriante possa procedere disponendo, con oneri di esproprio a carico dei soggetti beneficiari, l'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
martedì 2 marzo 2010
Nelle procedure espropriative riveste notevole importanza l’istituto della cessione volontaria. Ricevuta la notifica dell'indennità provvisoria, il proprietario espropriando potrebbe decidere di accettarne l'importo. In tal caso, l'indennità provvisoria diventerebbe definitiva. L'atto con cui si concorda l'indennità è però cosa ben diversa dall'atto di cessione volontaria. Infatti la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che l'accordo amichevole raggiunto dalle parti, sull'ammontare dell'indennità di esproprio o sul corrispettivo della cessione volontaria, non realizzi il trasferimento della proprietà dell'immobile dal titolare del diritto dominicale all'ente pubblico, occorrendo, invece, necessariamente che il procedimento ablatorio si concluda o con il decreto di esproprio o con il contratto di cessione volontaria.
La cessione volontaria di un immobile costituisce un contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell'ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude, eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata. Questo non esclude che un bene immobile possa essere trasferito all'ente pubblico a mezzo di un contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica. Occorre quindi distinguere se in pratica ci si sia avvalsi dell'uno o dell'altro strumento contrattuale (anche ai fini dell'applicabilità di istituti connessi alla procedura pubblicistica dell'espropriazione, quali la determinazione dell'indennizzo secondo i canoni legali e la retrocessione del bene ove l'opera pubblica non sia stata realizzata). Elementi costitutivi indispensabili per configurare la cessione volontaria (che valgono, altresì, a differenziarla dalla compravendita) sono secondo la giurisprudenza:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante, che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente);
c) il prezzo di cessione deve essere obbligatoriamente correlato ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante in caso di espropriazione, parametri dai quali non è possibile discostarsi (ex multis CDS 874/2007; Cassazione civile, sez. I, 11 marzo 2006, n. 5390).
Si tenga presente tra l'altro che il trattamento fiscale degli atti di cessione volontaria è più favorevole ripetto agli ordinari atti di compravendita, e questo costituisce un ulteriore elemento di distinzione tra i due tipi di atti.
Si ritiene in dottrina e giurisprudenza che la natura dell'atto di cessione si collochi in un ambito promiscuo tra il diritto pubblico e il diritto privato: infatti viene per lo più considerato un contratto pubblicistico la cui conclusione è, allo stesso tempo, soggetta alla disciplina privatistica, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell'amministrazione espropriante, ma dall'incontro paritetico delle volontà: gli effetti traslativi della proprietà traggono origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell'ente, con il quale le parti concludono in via negoziale la vicenda ablatoria.
Nel sistema della legge generale sull'espropriazione di pubblica utilità, la cessione volontaria, siccome regolata da disposizioni di carattere inderogabile e tassativo, ha dunque natura di negozio di diritto pubblico, che assolve alla funzione propria del decreto di espropriazione di segnare l'acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d'esecuzione dell'opera pubblica. Da tale equiparazione discende la necessaria conseguenza che, anche nell'ipotesi di acquisto del bene a mezzo di cessione volontaria, una volta pronunciata l'espropriazione e trascritto il relativo procedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità. Sicché, il terzo che pretenda di far valere il diritto di proprietà (ad esempio per intervenuta usucapione) su tutto o parte del bene già trasferito all'espropriante non può proporre azione di rivendicazione in favore dell'espropriante, ma deve far valere il proprio diritto nei confronti dell'espropriato, sull'indennità di espropriazione. Infatti, ai sensi dell'art. 34, secondo comma, TUE: «dopo la trascrizione del decreto di esproprio o dell'atto di cessione, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità». Sull'applicazione giurisprudenziale di tali principi si veda fra le altre Cassazione civile, sez. II, 24 giugno 2008, n. 17172. Inoltre, ai sensi dell'art. 45.3 TUE: «l'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato». L'equiparazione con il decreto di esproprio comporta che il terzo, che ritenga di avere un diritto sull'indennità, possa proporre opposizione al giudice ordinario (Corte d'Appello), mentre chi è stato chiamato a concludere l'accordo può impugnarlo, in linea di massima, innanzi al giudice amministrativo. Da tenere presente peraltro che, in tema di cessione volontaria, l'inadempimento da parte dell'espropriante con acquisizione alla proprietà pubblica avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, comporta una sua responsabilità di natura contrattuale con obbligo di risarcire il danno, stante la non restituibilità del bene. La causa, al pari di tutte le controversie contrattuali, rientra nella giurisdizione del g.o., quale giudice dei diritti, senza che rilevi, ai fini della giurisdizione, l'emanazione, ai sensi dell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, di provvedimento di acquisizione sanante, in quanto, a prescindere dall'impossibilità di applicazione retroattiva della norma nel caso di dichiarazione di pubblica utilità emessa anteriormente alla sua entrata in vigore, è lo stesso art. 43 cit. che attribuisce la giurisdizione al g.a. nella diversa ipotesi di impugnazione di provvedimenti amministrativi ove sia esercitata un'azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico (si veda in proposito Cassazione civile, sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26732).
Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, siccome nell'ambito della cessione volontaria la somma pattuita, come abbiamo visto, non è un corrispettivo rimesso alla libera determinazione delle parti, bensì una indennità commisurata al paramento legale, non risulterebbero applicabili le disposizioni in materia di risoluzione e di rescissione del contratto. Ne consegue però che, se la manifestazione di volontà delle parti è riferita ad un prezzo che non sia stato ricavato dall'Amministrazione sulla base dei summenzionati criteri legali, viene a mancare ogni efficacia negoziale pubblicistica, e vi è solo un contratto avente natura privatistica (con conseguente giurisdizione del giudice ordinario CASS. S.U. 4632/2007). In giurisprudenza, inoltre, è stata più volte sancita l'ammissibilità dell'azione di nullità e di annullamento del contratto di cessione volontaria (si veda fra tutte CASS. 8969/2000). La nullità può riguardare anche una singola clausola, come a volte accade per quella determinativa del prezzo. La cessione volontaria è caratterizzata, come abbiamo visto, dalla inderogabilità delle regole sulla determinazione dell'indennità di esproprio, sicché nel caso di deroga va sostituito l'importo pattuito applicando i criteri legali, sanando così la nullità relativa della clausola (Cassazione civile, sez. I, 5 luglio 2000, n. 8969).
Da tenere presente che, ai sensi dell'art. 45.1 TUE, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio». Il termine iniziale è dunque costituito dalla dichiarazione della pubblica utilità; prima di tale evento le parti non possono stipulare l'atto di cessione, mentre il termine finale è costituito dalla data di esecuzione del decreto di esproprio, in quanto è con l'esecuzione del decreto che si produce l'effetto traslativo del bene (la stipula dell'atto di cessione dopo la esecuzione sarebbe a tutti gli effetti nullo per mancanza dell'oggetto). Il testo unico, art. 20, disciplina l'ipotesi in cui, una volta condivisa la determinazione della misura dell'indennità, non sia stipulato l'atto di cessione per rifiuto o inadempimento del proprietario: “9. Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
12. L'autorità espropriante, anche su richiesta del promotore dell'espropriazione, può altresì emettere ed eseguire il decreto di esproprio, dopo aver ordinato il deposito dell'indennità condivisa presso la Cassa depositi e prestiti qualora il proprietario abbia condiviso la indennità senza dichiarare l'assenza di diritti di terzi sul bene, ovvero qualora non effettui il deposito della documentazione di cui al comma 8 nel termine ivi previsto ovvero ancora non si presti a ricevere la somma spettante.”
Non risulta, invece, disciplinata legislativamente l'ipotesi che la mancata stipula dipenda dall'autorità espropriante, ma a tale lacuna ha sopperito la giurisprudenza. Infatti il mancato perfezionamento dell'atto di cessione per inerzia della Autorità espropriante o mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità, non producendo alcun effetto traslativo (ricondotto al solo al successivo atto negoziale), comporta automaticamente la perdita di efficacia dell'accordo. Infatti l'accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di espropriazione non comporta una cessione volontaria del bene che renda non più necessario il completamento del procedimento espropriativo al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante. Peraltro, non essendo l'amministrazione che ha iniziato un siffatto procedimento obbligata per legge a completarlo, non è configurabile in capo al privato che abbia concluso detto accordo un diritto ad essere espropriato, ma solo un diritto a ricevere l'indennità nella misura concordata quando l'esproprio abbia luogo, mentre, se il procedimento non si conclude con l'espropriazione, viene meno, come detto, l'efficacia dell'accordo (ex plurimis CASS 9925/2005).
Ricordiamo che, una volta concordata l'indennità offerta, l'autorità espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio. Ovviamente al proprietario che abbia accettato l'indennità offerta spetta l'importo di cui all'articolo 45 TUE, comma 2, anche nel caso in cui l'autorità espropriante abbia emesso il decreto di espropriazione ai sensi dei commi 10 e 12 art. 20 TUE.
Il negozio di cessione volontaria concluso da un'amministrazione comunale nell'ambito di un procedimento espropriativo si deve ritenere soggetto, al pari di ogni contratto stipulato dalle pubbliche amministrazioni, all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica, primo fra tutti il requisito della forma scritta "ad substantiam", che ne costituisce elemento essenziale avente funzione costitutiva e non dichiarativa, conseguendone che la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, specie per quanto attiene all'obbligazione di pagare il prezzo da parte dell'amministrazione, non può essere fornita attraverso la confessione o il riconoscimento di debito (Cassazione civile, sez. I, 15 gennaio 2007, n. 621)
L'Autorità espropriante è tenuta per legge alla successiva trascrizione ai sensi dell'art. 2010, che presuppone un atto in forma pubblica o scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.).
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
lunedì 1 febbraio 2010
Nei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, per le problematiche sociali che riveste la materia, particolare attenzione deve essere data a coloro che subiscono la perdita totale o parziale dei propri beni. Il testo unico espropri si è caratterizzato per le numerose norme al suo interno che riguardano la fondamentale partecipazione degli espropriandi al procedimento. In tal modo viene a concretizzarsi uno dei principi cardine che deve sorreggere l'azione della PA, ossia la trasparenza amministrativa ed inoltre la corretta gestione della procedura ha anche un evidente scopo deflattivo del contenzioso. La sentenza Tar Lazio n. 41 del 5 gennaio 2010, riafferma il sacrosanto principio che in tema di espropriazione, al privato proprietario di un'area interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento.
Nella fattispecie sottoposta al Tribunale Amministrativo i ricorrenti hanno lamentato la violazione delle garanzie di informazione e di partecipazione al procedimento, non essendo stato loro consentito di interloquire tempestivamente con le amministrazioni procedenti, in ordine all'approvazione del progetto incidente sui beni di proprietà ed alla modulazione dello stesso.
In proposito il Tar richiama un chiaro e consolidato indirizzo giurisprudenziale (C. Stato, A. P. 20 dicembre 2002, n. 8; 24 gennaio 2000, n. 2; 15 settembre 1999, n. 14), dal quale ritiene di non discostarsi, che afferma il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, essendo preciso onere della amministrazione comunicare agli interessati l'avvio del procedimento sin dalla fase procedimentale preordinata alla dichiarazione di pubblica utilità, per mezzo della quale i beni dei privati sono immediatamente sottoposti ad una precisa qualità giuridica di subordinazione alla realizzazione di un'opera pubblica ed al conseguente regime di espropriabilità.
E’ stato anche precisato che, in tema di provvedimenti ablatori, l'obbligo di avviso di avvio del procedimento ex art. 7, l. 241/1990 non costituisce un adempimento formalistico, essendo finalizzato invece alla realizzazione del principio sostanziale della partecipazione procedimentale, diretto a consentire al privato di avere conoscenza del provvedimento in itinere ed, eventualmente, di interloquire con l’amministrazione introducendo nella dinamica procedimentale l’apprezzamento degli interessi di cui è portatore, per consentirne la comparazione con gli altri interessi coinvolti, pubblici e privati.
Ne deriva che il mancato avviso personale imposto dall'art. 7 l. 241/1990, non superato dalla prova di conoscenza aliunde o dalla effettiva partecipazione al procedimento autonomo prodromico alla declaratoria di pubblica utilità di un'opera, rende illegittimo il provvedimento conclusivo dello stesso (C. Stato, IV, 24.2.2000, n. 1016).
Nella specie, risulta pacifico dal fascicolo di causa che il Comune di Roma non ha informato i ricorrenti dell'esistenza del procedimento espropriativo connesso al primo atto deliberativo del procedimento.
Né può applicarsi l'art. 21 octies della l. 241/90, il quale dispone che non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti qualora, per la sua natura vincolata, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, atteso che va esclusa la natura vincolata degli atti non partecipati, di carattere discrezionale, e che la resistente amministrazione non ha dimostrato che il tenore degli atti impugnati non sarebbe mutato in caso di regolare comunicazione dell'avvio del procedimento.
Detta omissione comporta quindi la illegittimità del procedimento espropriativo.
Il rilevato vizio, di valenza assorbente ogni altra censura pure formulata, si estende a tutti gli atti intervenuti nell’espropriazione di cui trattasi, ivi compreso il pronunziato esproprio, fatto oggetto di impugnazione per illegittimità derivata a mezzo di motivi aggiunti.
Per tutto quanto sopra, detto il Tar ha accolto conseguentemente il ricorso disponendo l’annullamento degli atti impugnati.
avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
giovedì 7 gennaio 2010
La controversia nasce da un ricorso (n. 58858/00) presentato da tre cittadini contro lo Stato Italiano. I ricorrenti hanno investito la Corte Europea il 7 aprile 2000 ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali. Con una sentenza dell'8 dicembre 2005 la Corte aveva giudicato che l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti non era compatibile con il principio di legalità e che, perciò, vi era stata violazione dell'articolo 1 del protocollo n. 1 (Guiso-Gallisay c. Italia, n. 58858/00, §§ 96-97, e punto 2 del dispositivo, 8 dicembre 2005). In applicazione dell'articolo 41 della Convenzione, i ricorrenti avevano insistito per ottenere una somma corrispondente al valore dei terreni controversi, dedotta l'indennità ottenuta sul piano nazionale, ed aumentata del valore delle costruzioni realizzate sui loro terreni. Chiedevano anche una somma a titolo di rimborso dell'imposta alla fonte, imposta alla quale erano state sottoposte le somme riconosciute dal Tribunale di Nuoro il 14 luglio 1997. Sollecitavano inoltre un'indennità per danno morale e chiedevano il rimborso delle spese di giustizia impegnate dinanzi alle giurisdizioni nazionali e delle spese esposte dinanzi alla Corte europea.
Il termine fissato dalla Corte per permettere alle parti di raggiungere un accordo amichevole era scaduto però senza che le parti trovassero un accordo.
Nella sua sentenza del 21 ottobre 2008, la Camera ha proceduto ad un'inversione di giurisprudenza con riguardo all'applicazione dell'articolo 41 nei casi di espropriazione indiretta. Ricordiamo che l'art. 41 statuisce: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
Nell'ambito della pronuncia del 2008, la Camera, con sei voti contro uno, ha:
- abbandonato il metodo abituale di calcolo del risarcimento danni, fino ad allora basato sul valore di mercato attualizzato del terreno, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti dall'espropriante;
- adottato un metodo nuovo, fondato sul valore di mercato del bene alla data in cui gli interessati hanno la certezza giuridica di avere perso il loro diritto di proprietà. Su detta somma decorrono gli interessi legali dal giorno della pronuncia della sentenza della Corte, decurtando l'indennità eventualmente già ricevuta.
La Camera ha giustificato la citata inversione con:
- il timore di introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria;
- la preoccupazione non di lasciare posto all'arbitrio;
- il rifiuto di attribuire alla compensazione uno scopo punitivo o dissuasivo per lo Stato, in luogo di una funzione compensativa per il ricorrente;
- il cambiamento della legislazione italiana (legge finanziaria 2007) intervenuto in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 22 ottobre 2007, legislazione che prevede che, in caso di espropriazione indiretta, la compensazione deve corrispondere al valore venale dei beni, nessuna riduzione essendo ammessa.
La Corte ha assegnato ai ricorrenti 1.803.374 euro per danno materiale, 45.000 euro per danno morale e 30.000 euro per spese e costi.
Il 30 ottobre 2008 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 Conv. e 73 Reg. Uno dei Collegi della Grande Camera ha accolto la domanda il 26 gennaio 2009. Riferendosi alla giurisprudenza fino ad allora consolidata della Corte, in particolare alla sentenza Scordino c. Italia (n. 3), i ricorrenti hanno chiesto alla Grande Camera di condannare lo Stato Italiano alla restituzione dei loro i terreni e, in mancanza di restituzione, che lo Stato Italiano versasse una somma equivalente al valore dei terreni nel 2009, più il costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. In sede di commento è opportuno soffermarsi sulle varie pronunce della Corte i cui principi sono stati richiamati dai ricorrenti.
In materia di privazione arbitraria di beni, la Corte aveva iniziato il suo filone giurisprudenziale con la sentenza Papamichalopoulos ed altri c. Grecia. In tale sede era stato deciso che lo Stato resistente dovesse versare agli interessati, per l'usurpazione da parte delle autorità dei loro terreni, una somma equivalente al valore attuale di questi, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti. Questa linea interpretativa era stata seguita nelle sentenze Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia ((soddisfazione equa), n. 31524/96, 30 ottobre 2003) e Carbonara e Ventura c. Italia (soddisfazione equa), n. 24638/94, 11 dicembre 2003), riguardanti sempre casi di espropriazione illegittima. In mancanza di restituzione dei terreni, la Corte aveva assegnato a titolo di danno materiale somme che prendevano in considerazione il valore attuale dei beni sul mercato immobiliare al momento dalla pronuncia della sentenza. Inoltre, aveva cercato di compensare ulteriormente le perdite subite considerando il potenziale del terreno in causa, calcolato a partire dal costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. Questa giurisprudenza era stata ratificata dalla Grande Camera nella sentenza Scordino c. Italia (n. 1) ((GC), n. 36813/97, §§ 250-254, CEDU 2006 – V). Le sentenze Scordino c. Italia (n. 3) e Pasculli c. Italia ((soddisfazione equa), n. 36818/97, 4 dicembre 2007) avevano infine seguito ed applicato questa giurisprudenza.
La Grande Camera, con sentenza del 22 dicembre 2009, ha stabilito la necessità di applicare nuovi principi alle controversie relative alle espropriazioni illegittime. Pur riconoscendo che i ricorrenti hanno diritto al valore pieno ed intero dei beni, la Grande Camera ha ritenuto che la data da prendere in considerazione per quantificare il danno materiale non deve essere quella della pronunzia della sentenza della Corte, ma quella della perdita di proprietà dei terreni. Infatti, il precedente orientamento giurisprudenziale potrebbe lasciare posto ad un margine d' incertezza, o di arbitrio. D'altra parte, secondo la Grande Camera, il criterio adottato in precedenza -ossia quantificare il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed il mancato godimento del bene automaticamente corrispondente al valore delle opere costruite dallo Stato aggiunto al valore di mercato attualizzato dei terreni alla data della sentenza della Corte di Strasburgo- non trova concreta giustificazione. Questo metodo può infatti introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria. Inoltre, questo metodo attribuisce alla compensazione per danno materiale uno scopo punitivo o dissuasivo nei confronti dello Stato resistente, in luogo di una funzione compensativa per i ricorrenti (come peraltro già affermato dalla Camera nella sentenza del 2008).
La Grande Camera ha ritenuto che il nuovo orientamento potrà essere applicato dalle giurisdizioni italiane alle controversie che dovranno decidere.
La Grande Camera ha dunque stabilito di non tenere più conto, per valutare il danno materiale, del costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato sui terreni ablati, riconoscendo ragionevole accordare ai ricorrenti la somma di 2.100.000 euro più ogni importo eventualmente dovuto a titolo d' imposta su questa somma.
La Corte ha ritenuto inoltre di dover prendere in considerazione il pregiudizio derivato dall'indisponibilità dei terreni per il periodo che va dall'inizio dell'occupazione (1977) al momento della perdita della proprietà (1983), assegnando ai tre ricorrenti congiuntamente 45.000 euro, importo dal quale deve essere dedotta la somma già ottenuta dai ricorrenti a livello interno a titolo di indennità d'occupazione.
Anche la sensazione d'impotenza e di frustrazione di fronte all'espropriazione illegale dei beni, avendo causato ai ricorrenti un pregiudizio morale importante, secondo la decisione in commento deve essere riparata in modo adeguato, con il riconoscimento per ogni ricorrente di 15.000 euro (45.000 euro in totale).
La Corte ha confermato che le indennità assegnate devono essere aumentate in funzione delle spese e costi supplementari causati dalla procedura dinanzi alla Grande Camera e per tale motivo ha liquidato ai ricorrenti congiuntamente 35.000 euro oltre IVA.
La Corte, infine, ha riconosciuto il tasso degli interessi moratori pari al tasso d'interesse della Banca Centrale Europea aumentato di tre punti percentuali.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma