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lunedì 13 giugno 2011
Corte Cost., sent. 7 giugno 2011, n. 181, pres. Maddalena, Red. Criscuolo "ESPROPRI AREE AGRICOLE: È INCOSTITUZIONALE L'ART. 40 CO. 2 E 3 DEL T.U.E"
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RETELEGALE PARMA |
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La Corte Costituzionale con decisione del 7 giugno 2011 depositata il 10 giugno 2011 ha dichiarato:
a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);
b) l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità);
c) l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione.
La Corte di appello di Napoli (sezione prima civile, in diversa composizione), con due ordinanze ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).
A sua volta la Corte di appello di Lecce, con ordinanza ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità - Testo A), in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost..
Ad avviso delle rimettenti, la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla considerazione dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e tale da non assicurare all’avente diritto il versamento di un indennizzo integrale o, quanto meno, “ragionevole”, si porrebbe in contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, così violando l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la disposizione convenzionale opererebbe come norma interposta.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, valido in ogni fattispecie espropriativa, o ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal proprietario, l’indennità non può mai essere simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un “serio ristoro”. Per realizzare tale risultato si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in relazione ai terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili.
Infine, sarebbe configurabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i suoli agricoli e per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari di suoli edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore di mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione.
Secondo la Corte costituzionale le questioni sono fondate.
In via preliminare, si deve ricordare che la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi richiamati nell'attuale sentenza n 181 del 2011.
Si deve, dunque, verificare:
a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale;
b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate).
Orbene, la Corte europea, con decisione della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende».
Ha poi stabilito (tra gli altri) i seguenti principi:
a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma;
b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo;
c) nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base dell’espropriazione;
d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni;
e) come la Corte ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale;
f) in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il bene;
g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato). I principi, stabiliti dalla Corte di Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato conferma nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si è richiamata (tra le più recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1° aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia).
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante l’affermazione che l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991; sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che, per raggiungere tale finalità, «occorre fare riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene».
Ad analoghe conclusioni è giunta la già citata sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla sentenza n. 355 del 1985).
Si deve rilevare, a questo punto, che le suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non significa, tuttavia, che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria.
Invero, l’art. 1 del primo protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E non a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio tale previsione generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione) vanno interpretati i disposti della seconda e della terza (sentenza Scordino contro Italia, punto 78). Del resto, non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo, tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la sentenza n. 348 del 2007 ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato». E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta indennità.
Con ciò non si vuol negare che le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo. Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennità si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene».
In senso contrario non varrebbe richiamare la sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa censurata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.
Infatti, quella pronuncia è anteriore alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché nella fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost., attualmente vigente.
7. - Alla luce di detto parametro, in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora verificare il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione contemplato dalla normativa censurata, la quale prevede che, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, la detta indennità sia commisurata al valore agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni. Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni provinciali, con le modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi richiamate).
Orbene, il valore tabellare così calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo, ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del 2007).
È vero che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
Sulla base delle esposte considerazioni deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e con l’art. 42, terzo comma, Cost.
Gli ulteriori profili dedotti in riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti.
8. - Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile, adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.
La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola.
La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);
b) l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità);
c) l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione.
La Corte di appello di Napoli (sezione prima civile, in diversa composizione), con due ordinanze ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).
A sua volta la Corte di appello di Lecce, con ordinanza ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità - Testo A), in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost..
Ad avviso delle rimettenti, la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla considerazione dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e tale da non assicurare all’avente diritto il versamento di un indennizzo integrale o, quanto meno, “ragionevole”, si porrebbe in contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, così violando l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la disposizione convenzionale opererebbe come norma interposta.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, valido in ogni fattispecie espropriativa, o ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal proprietario, l’indennità non può mai essere simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un “serio ristoro”. Per realizzare tale risultato si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in relazione ai terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili.
Infine, sarebbe configurabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i suoli agricoli e per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari di suoli edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore di mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione.
Secondo la Corte costituzionale le questioni sono fondate.
In via preliminare, si deve ricordare che la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi richiamati nell'attuale sentenza n 181 del 2011.
Si deve, dunque, verificare:
a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale;
b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate).
Orbene, la Corte europea, con decisione della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende».
Ha poi stabilito (tra gli altri) i seguenti principi:
a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma;
b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo;
c) nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base dell’espropriazione;
d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni;
e) come la Corte ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale;
f) in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il bene;
g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato). I principi, stabiliti dalla Corte di Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato conferma nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si è richiamata (tra le più recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1° aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia).
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante l’affermazione che l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991; sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che, per raggiungere tale finalità, «occorre fare riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene».
Ad analoghe conclusioni è giunta la già citata sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla sentenza n. 355 del 1985).
Si deve rilevare, a questo punto, che le suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non significa, tuttavia, che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria.
Invero, l’art. 1 del primo protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E non a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio tale previsione generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione) vanno interpretati i disposti della seconda e della terza (sentenza Scordino contro Italia, punto 78). Del resto, non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo, tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la sentenza n. 348 del 2007 ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato». E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta indennità.
Con ciò non si vuol negare che le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo. Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennità si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene».
In senso contrario non varrebbe richiamare la sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa censurata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.
Infatti, quella pronuncia è anteriore alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché nella fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost., attualmente vigente.
7. - Alla luce di detto parametro, in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora verificare il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione contemplato dalla normativa censurata, la quale prevede che, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, la detta indennità sia commisurata al valore agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni. Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni provinciali, con le modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi richiamate).
Orbene, il valore tabellare così calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo, ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del 2007).
È vero che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
Sulla base delle esposte considerazioni deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e con l’art. 42, terzo comma, Cost.
Gli ulteriori profili dedotti in riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti.
8. - Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile, adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.
La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola.
La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
Avv. Giuseppe Spanò
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giovedì 24 giugno 2010
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI sentenze 14 maggio 2010 numeri 11729 e 11730 -ALCUNI PRINCIPI BASILARI IN MATERIA DI ESPROPRIAZIONE-
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Con le sentenze in esame la Corte di Cassazione a sezioni unite ribadisce alcuni importanti principi:
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
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1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
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giovedì 1 aprile 2010
ESPROPRIAZIONE LEGITTIMA ED ESPROPRIAZIONE ILLEGITTIMA: PRINCIPI GENERALI
06:36 |
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La materia delle espropriazioni per pubblica utilità è una delle più delicate e complesse del diritto amministrativo, con risvolti significativi di diritto civile ed interferenze da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Vi è il coinvolgimento di numerosi principi ed interessi costituzionalmente rilevanti. Vengono in considerazione aspetti di notevole rilievo sociale e di finanza pubblica.
Il provvedimento espropriativo costituisce la forma più incisiva di esplicazione del potere ablatorio, divenuto strumento insostituibile per realizzare opere pubbliche e attuare una equilibrata e corretta pianificazione urbanistica e industriale.
Infatti: «L’espropriazione consiste nel trasferimento coattivo, per ragioni di pubblico interesse, della proprietà o di altro diritto reale su un bene privato a favore della pubblica amministrazione, con la conseguente conversione del diritto reale dell’espropriato in un diritto di credito ad una somma di denaro a titolo d’indennità».
L’istituto in parola può essere utilizzato in realtà anche per interventi diversi dalle opere pubbliche, come nel caso di acquisizione, a beneficio della collettività, di immobili per i quali non è prevista una concreta trasformazione o alterazione, oppure nel caso di esproprio di aree a favore dei privati per interventi produttivi.
La posizione dell’espropriante è assimilabile a quella di un acquirente a titolo originario. Ciò comporta che l’espropriante acquista il bene libero da ogni peso (servitù, ipoteca, enfiteusi, onere reale) gravante sul bene e che gli eventuali diritti di terzi sul bene si risolvono nell’indennità.
In sostanza il diritto alla proprietà privata, che è originariamente perfetto, viene a tramutarsi -in virtù di un pubblico interesse- in un diritto affievolito. È pacifico che, trattandosi di limitazioni di diritti individuali, in conformità dei principi vigenti nel nostro ordinamento costituzionale, sia richiesta una legge, in quanto l’autorità pubblica non potrebbe procedere all’espropriazione se a ciò non fosse autorizzata dal legislatore. Il diritto di proprietà pertanto è riconosciuto come diritto di disporre e godere delle cose che ne sono oggetto da parte di un singolo individuo, sino a che non si verifichi contrasto con un interesse pubblico. In questo caso esso degrada ad interesse legittimo, essendo riconosciuto dall’ordinamento giuridico non tanto e non solo per lo sviluppo e il benessere del singolo, ma essenzialmente per lo sviluppo e il benessere della collettività.
Le regole per procedere ad una espropriazione legittima sono attualmente inserite nel testo unico espropri (d.p.r. 327/2001-dlgs 2002 n. 302 e succ. modifiche ed integrazioni) e nella legislazione regionale. I vari titolari dei beni oggetto di esproprio hanno diritto, come detto, ad indennità. In particolare, il testo unico espropri disciplina all'art. 36 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio per la realizzazione di opere private che non consistano in abitazioni dell'edilizia residenziale pubblica; all'art. 37 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile; all'art. 38 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area legittimamente edificata; all'art. 40 la determinazione dell'indennità di aree agricole. Sono previste inoltre, in particolari ipotesi, maggiorazioni ed indennità aggiuntive.
Quando, invece, le regole sopra menzionate non sono rispettate, si vengono a perpetrare espropriazioni illegittime. In questi casi il legislatore ha introdotto una complessa normativa che, sostanzialmente, consente l'emanazione di un provvedimento amministrativo di acquisizione del bene per sanare la commessa illegittimità. Infatti, qualora l'opera sia stata realizzata in assenza di un valido decreto di esproprio, l'art. 43 del testo unico espropri attribuisce all'amministrazione il potere di acquisire l'area al proprio patrimonio indisponibile e all'espropriato il diritto al risarcimento del danno, salvo il sindacato in sede giurisdizionale del provvedimento di acquisizione ed, in casi eccezionali e residuali, la restituzione dei beni ai proprietari espropriati. L'art. 43 è dunque applicabile quando mancano fin dall'origine i provvedimenti ablatori legittimi o gli stessi risultano comunque viziati, perciò annullabili davanti al giudice amministrativo.
Nell'ambito del parere del Consiglio di Stato n. 4 del 2001 (che ha redatto lo schema del testo unico espropri) vengono evidenziate le ragioni che hanno portato alla nascita dell'art. 43 testo unico espropri. In particolare viene affermato che l’articolo 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, dell'occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà. Vi è la necessità di adeguarsi ai principi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96, ha affermato che l’istituto pretorio affermatosi nell’ordinamento italiano è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In concreto l’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno) in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale.
L'art. 43 verrebbe dunque a superare definitivamente, secondo il Consiglio di Stato, l'istituto delineato dall'ormai storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 1464 del 1983: “Nelle ipotesi in cui la Pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito”.
In dettaglio.
L'art. 43, rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, prevede che, valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, possa disporre che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. In particolare l'atto di acquisizione:
a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio;
b) dà atto delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area indicando, ove risulti, la data dalla quale essa si è verificata;
c) determina la misura del risarcimento del danno e ne dispone il pagamento, entro il termine di trenta giorni, senza pregiudizio per l'eventuale azione già proposta;
d) è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili;
e) comporta il passaggio del diritto di proprietà;
f) è trascritto senza indugio presso l'ufficio dei registri immobiliari;
g) è trasmesso all'ufficio competente per l'aggiornamento degli elenchi degli atti che dichiarano la pubblica utilità (istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2 t.u. espr.).
Qualora sia impugnato il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera o il decreto di esproprio, ovvero sia esercitata un'azione volta alla restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso in cui riconosca fondato il ricorso o la domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo.
Qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia pronunciato la condanna al risarcimento del danno, l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto risarcimento del danno. Il decreto è trascritto nei registri immobiliari a cura e spese della medesima autorità.
Viene precisato che le disposizioni menzionate si applicano, in quanto compatibili, anche quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, nonché quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale.
L'art. 43 comma 6 t.u. espr. prevede espressamente che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, il risarcimento del danno deve essere determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Il d.lgs. n. 302/2002 ha inserito il comma 6 bis nell'art. 43 t.u. espr., prevedendo che, ai sensi dell'articolo 3 della legge 1 agosto 2002, n. 166, l'autorità espropriante possa procedere disponendo, con oneri di esproprio a carico dei soggetti beneficiari, l'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
Il provvedimento espropriativo costituisce la forma più incisiva di esplicazione del potere ablatorio, divenuto strumento insostituibile per realizzare opere pubbliche e attuare una equilibrata e corretta pianificazione urbanistica e industriale.
Infatti: «L’espropriazione consiste nel trasferimento coattivo, per ragioni di pubblico interesse, della proprietà o di altro diritto reale su un bene privato a favore della pubblica amministrazione, con la conseguente conversione del diritto reale dell’espropriato in un diritto di credito ad una somma di denaro a titolo d’indennità».
L’istituto in parola può essere utilizzato in realtà anche per interventi diversi dalle opere pubbliche, come nel caso di acquisizione, a beneficio della collettività, di immobili per i quali non è prevista una concreta trasformazione o alterazione, oppure nel caso di esproprio di aree a favore dei privati per interventi produttivi.
La posizione dell’espropriante è assimilabile a quella di un acquirente a titolo originario. Ciò comporta che l’espropriante acquista il bene libero da ogni peso (servitù, ipoteca, enfiteusi, onere reale) gravante sul bene e che gli eventuali diritti di terzi sul bene si risolvono nell’indennità.
In sostanza il diritto alla proprietà privata, che è originariamente perfetto, viene a tramutarsi -in virtù di un pubblico interesse- in un diritto affievolito. È pacifico che, trattandosi di limitazioni di diritti individuali, in conformità dei principi vigenti nel nostro ordinamento costituzionale, sia richiesta una legge, in quanto l’autorità pubblica non potrebbe procedere all’espropriazione se a ciò non fosse autorizzata dal legislatore. Il diritto di proprietà pertanto è riconosciuto come diritto di disporre e godere delle cose che ne sono oggetto da parte di un singolo individuo, sino a che non si verifichi contrasto con un interesse pubblico. In questo caso esso degrada ad interesse legittimo, essendo riconosciuto dall’ordinamento giuridico non tanto e non solo per lo sviluppo e il benessere del singolo, ma essenzialmente per lo sviluppo e il benessere della collettività.
Le regole per procedere ad una espropriazione legittima sono attualmente inserite nel testo unico espropri (d.p.r. 327/2001-dlgs 2002 n. 302 e succ. modifiche ed integrazioni) e nella legislazione regionale. I vari titolari dei beni oggetto di esproprio hanno diritto, come detto, ad indennità. In particolare, il testo unico espropri disciplina all'art. 36 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio per la realizzazione di opere private che non consistano in abitazioni dell'edilizia residenziale pubblica; all'art. 37 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile; all'art. 38 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area legittimamente edificata; all'art. 40 la determinazione dell'indennità di aree agricole. Sono previste inoltre, in particolari ipotesi, maggiorazioni ed indennità aggiuntive.
Quando, invece, le regole sopra menzionate non sono rispettate, si vengono a perpetrare espropriazioni illegittime. In questi casi il legislatore ha introdotto una complessa normativa che, sostanzialmente, consente l'emanazione di un provvedimento amministrativo di acquisizione del bene per sanare la commessa illegittimità. Infatti, qualora l'opera sia stata realizzata in assenza di un valido decreto di esproprio, l'art. 43 del testo unico espropri attribuisce all'amministrazione il potere di acquisire l'area al proprio patrimonio indisponibile e all'espropriato il diritto al risarcimento del danno, salvo il sindacato in sede giurisdizionale del provvedimento di acquisizione ed, in casi eccezionali e residuali, la restituzione dei beni ai proprietari espropriati. L'art. 43 è dunque applicabile quando mancano fin dall'origine i provvedimenti ablatori legittimi o gli stessi risultano comunque viziati, perciò annullabili davanti al giudice amministrativo.
Nell'ambito del parere del Consiglio di Stato n. 4 del 2001 (che ha redatto lo schema del testo unico espropri) vengono evidenziate le ragioni che hanno portato alla nascita dell'art. 43 testo unico espropri. In particolare viene affermato che l’articolo 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, dell'occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà. Vi è la necessità di adeguarsi ai principi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96, ha affermato che l’istituto pretorio affermatosi nell’ordinamento italiano è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In concreto l’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno) in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale.
L'art. 43 verrebbe dunque a superare definitivamente, secondo il Consiglio di Stato, l'istituto delineato dall'ormai storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 1464 del 1983: “Nelle ipotesi in cui la Pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito”.
In dettaglio.
L'art. 43, rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, prevede che, valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, possa disporre che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. In particolare l'atto di acquisizione:
a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio;
b) dà atto delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area indicando, ove risulti, la data dalla quale essa si è verificata;
c) determina la misura del risarcimento del danno e ne dispone il pagamento, entro il termine di trenta giorni, senza pregiudizio per l'eventuale azione già proposta;
d) è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili;
e) comporta il passaggio del diritto di proprietà;
f) è trascritto senza indugio presso l'ufficio dei registri immobiliari;
g) è trasmesso all'ufficio competente per l'aggiornamento degli elenchi degli atti che dichiarano la pubblica utilità (istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2 t.u. espr.).
Qualora sia impugnato il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera o il decreto di esproprio, ovvero sia esercitata un'azione volta alla restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso in cui riconosca fondato il ricorso o la domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo.
Qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia pronunciato la condanna al risarcimento del danno, l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto risarcimento del danno. Il decreto è trascritto nei registri immobiliari a cura e spese della medesima autorità.
Viene precisato che le disposizioni menzionate si applicano, in quanto compatibili, anche quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, nonché quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale.
L'art. 43 comma 6 t.u. espr. prevede espressamente che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, il risarcimento del danno deve essere determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Il d.lgs. n. 302/2002 ha inserito il comma 6 bis nell'art. 43 t.u. espr., prevedendo che, ai sensi dell'articolo 3 della legge 1 agosto 2002, n. 166, l'autorità espropriante possa procedere disponendo, con oneri di esproprio a carico dei soggetti beneficiari, l'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
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martedì 2 marzo 2010
LA CESSIONE VOLONTARIA NELL'AMBITO DELLE ESPROPRIAZIONI PER PUBBLICA UTILITÀ
07:59 |
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Nelle procedure espropriative riveste notevole importanza l’istituto della cessione volontaria. Ricevuta la notifica dell'indennità provvisoria, il proprietario espropriando potrebbe decidere di accettarne l'importo. In tal caso, l'indennità provvisoria diventerebbe definitiva. L'atto con cui si concorda l'indennità è però cosa ben diversa dall'atto di cessione volontaria. Infatti la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che l'accordo amichevole raggiunto dalle parti, sull'ammontare dell'indennità di esproprio o sul corrispettivo della cessione volontaria, non realizzi il trasferimento della proprietà dell'immobile dal titolare del diritto dominicale all'ente pubblico, occorrendo, invece, necessariamente che il procedimento ablatorio si concluda o con il decreto di esproprio o con il contratto di cessione volontaria.
La cessione volontaria di un immobile costituisce un contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell'ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude, eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata. Questo non esclude che un bene immobile possa essere trasferito all'ente pubblico a mezzo di un contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica. Occorre quindi distinguere se in pratica ci si sia avvalsi dell'uno o dell'altro strumento contrattuale (anche ai fini dell'applicabilità di istituti connessi alla procedura pubblicistica dell'espropriazione, quali la determinazione dell'indennizzo secondo i canoni legali e la retrocessione del bene ove l'opera pubblica non sia stata realizzata). Elementi costitutivi indispensabili per configurare la cessione volontaria (che valgono, altresì, a differenziarla dalla compravendita) sono secondo la giurisprudenza:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante, che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente);
c) il prezzo di cessione deve essere obbligatoriamente correlato ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante in caso di espropriazione, parametri dai quali non è possibile discostarsi (ex multis CDS 874/2007; Cassazione civile, sez. I, 11 marzo 2006, n. 5390).
Si tenga presente tra l'altro che il trattamento fiscale degli atti di cessione volontaria è più favorevole ripetto agli ordinari atti di compravendita, e questo costituisce un ulteriore elemento di distinzione tra i due tipi di atti.
Si ritiene in dottrina e giurisprudenza che la natura dell'atto di cessione si collochi in un ambito promiscuo tra il diritto pubblico e il diritto privato: infatti viene per lo più considerato un contratto pubblicistico la cui conclusione è, allo stesso tempo, soggetta alla disciplina privatistica, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell'amministrazione espropriante, ma dall'incontro paritetico delle volontà: gli effetti traslativi della proprietà traggono origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell'ente, con il quale le parti concludono in via negoziale la vicenda ablatoria.
Nel sistema della legge generale sull'espropriazione di pubblica utilità, la cessione volontaria, siccome regolata da disposizioni di carattere inderogabile e tassativo, ha dunque natura di negozio di diritto pubblico, che assolve alla funzione propria del decreto di espropriazione di segnare l'acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d'esecuzione dell'opera pubblica. Da tale equiparazione discende la necessaria conseguenza che, anche nell'ipotesi di acquisto del bene a mezzo di cessione volontaria, una volta pronunciata l'espropriazione e trascritto il relativo procedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità. Sicché, il terzo che pretenda di far valere il diritto di proprietà (ad esempio per intervenuta usucapione) su tutto o parte del bene già trasferito all'espropriante non può proporre azione di rivendicazione in favore dell'espropriante, ma deve far valere il proprio diritto nei confronti dell'espropriato, sull'indennità di espropriazione. Infatti, ai sensi dell'art. 34, secondo comma, TUE: «dopo la trascrizione del decreto di esproprio o dell'atto di cessione, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità». Sull'applicazione giurisprudenziale di tali principi si veda fra le altre Cassazione civile, sez. II, 24 giugno 2008, n. 17172. Inoltre, ai sensi dell'art. 45.3 TUE: «l'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato». L'equiparazione con il decreto di esproprio comporta che il terzo, che ritenga di avere un diritto sull'indennità, possa proporre opposizione al giudice ordinario (Corte d'Appello), mentre chi è stato chiamato a concludere l'accordo può impugnarlo, in linea di massima, innanzi al giudice amministrativo. Da tenere presente peraltro che, in tema di cessione volontaria, l'inadempimento da parte dell'espropriante con acquisizione alla proprietà pubblica avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, comporta una sua responsabilità di natura contrattuale con obbligo di risarcire il danno, stante la non restituibilità del bene. La causa, al pari di tutte le controversie contrattuali, rientra nella giurisdizione del g.o., quale giudice dei diritti, senza che rilevi, ai fini della giurisdizione, l'emanazione, ai sensi dell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, di provvedimento di acquisizione sanante, in quanto, a prescindere dall'impossibilità di applicazione retroattiva della norma nel caso di dichiarazione di pubblica utilità emessa anteriormente alla sua entrata in vigore, è lo stesso art. 43 cit. che attribuisce la giurisdizione al g.a. nella diversa ipotesi di impugnazione di provvedimenti amministrativi ove sia esercitata un'azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico (si veda in proposito Cassazione civile, sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26732).
Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, siccome nell'ambito della cessione volontaria la somma pattuita, come abbiamo visto, non è un corrispettivo rimesso alla libera determinazione delle parti, bensì una indennità commisurata al paramento legale, non risulterebbero applicabili le disposizioni in materia di risoluzione e di rescissione del contratto. Ne consegue però che, se la manifestazione di volontà delle parti è riferita ad un prezzo che non sia stato ricavato dall'Amministrazione sulla base dei summenzionati criteri legali, viene a mancare ogni efficacia negoziale pubblicistica, e vi è solo un contratto avente natura privatistica (con conseguente giurisdizione del giudice ordinario CASS. S.U. 4632/2007). In giurisprudenza, inoltre, è stata più volte sancita l'ammissibilità dell'azione di nullità e di annullamento del contratto di cessione volontaria (si veda fra tutte CASS. 8969/2000). La nullità può riguardare anche una singola clausola, come a volte accade per quella determinativa del prezzo. La cessione volontaria è caratterizzata, come abbiamo visto, dalla inderogabilità delle regole sulla determinazione dell'indennità di esproprio, sicché nel caso di deroga va sostituito l'importo pattuito applicando i criteri legali, sanando così la nullità relativa della clausola (Cassazione civile, sez. I, 5 luglio 2000, n. 8969).
Da tenere presente che, ai sensi dell'art. 45.1 TUE, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio». Il termine iniziale è dunque costituito dalla dichiarazione della pubblica utilità; prima di tale evento le parti non possono stipulare l'atto di cessione, mentre il termine finale è costituito dalla data di esecuzione del decreto di esproprio, in quanto è con l'esecuzione del decreto che si produce l'effetto traslativo del bene (la stipula dell'atto di cessione dopo la esecuzione sarebbe a tutti gli effetti nullo per mancanza dell'oggetto). Il testo unico, art. 20, disciplina l'ipotesi in cui, una volta condivisa la determinazione della misura dell'indennità, non sia stipulato l'atto di cessione per rifiuto o inadempimento del proprietario: “9. Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
12. L'autorità espropriante, anche su richiesta del promotore dell'espropriazione, può altresì emettere ed eseguire il decreto di esproprio, dopo aver ordinato il deposito dell'indennità condivisa presso la Cassa depositi e prestiti qualora il proprietario abbia condiviso la indennità senza dichiarare l'assenza di diritti di terzi sul bene, ovvero qualora non effettui il deposito della documentazione di cui al comma 8 nel termine ivi previsto ovvero ancora non si presti a ricevere la somma spettante.”
Non risulta, invece, disciplinata legislativamente l'ipotesi che la mancata stipula dipenda dall'autorità espropriante, ma a tale lacuna ha sopperito la giurisprudenza. Infatti il mancato perfezionamento dell'atto di cessione per inerzia della Autorità espropriante o mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità, non producendo alcun effetto traslativo (ricondotto al solo al successivo atto negoziale), comporta automaticamente la perdita di efficacia dell'accordo. Infatti l'accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di espropriazione non comporta una cessione volontaria del bene che renda non più necessario il completamento del procedimento espropriativo al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante. Peraltro, non essendo l'amministrazione che ha iniziato un siffatto procedimento obbligata per legge a completarlo, non è configurabile in capo al privato che abbia concluso detto accordo un diritto ad essere espropriato, ma solo un diritto a ricevere l'indennità nella misura concordata quando l'esproprio abbia luogo, mentre, se il procedimento non si conclude con l'espropriazione, viene meno, come detto, l'efficacia dell'accordo (ex plurimis CASS 9925/2005).
Ricordiamo che, una volta concordata l'indennità offerta, l'autorità espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio. Ovviamente al proprietario che abbia accettato l'indennità offerta spetta l'importo di cui all'articolo 45 TUE, comma 2, anche nel caso in cui l'autorità espropriante abbia emesso il decreto di espropriazione ai sensi dei commi 10 e 12 art. 20 TUE.
Il negozio di cessione volontaria concluso da un'amministrazione comunale nell'ambito di un procedimento espropriativo si deve ritenere soggetto, al pari di ogni contratto stipulato dalle pubbliche amministrazioni, all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica, primo fra tutti il requisito della forma scritta "ad substantiam", che ne costituisce elemento essenziale avente funzione costitutiva e non dichiarativa, conseguendone che la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, specie per quanto attiene all'obbligazione di pagare il prezzo da parte dell'amministrazione, non può essere fornita attraverso la confessione o il riconoscimento di debito (Cassazione civile, sez. I, 15 gennaio 2007, n. 621)
L'Autorità espropriante è tenuta per legge alla successiva trascrizione ai sensi dell'art. 2010, che presuppone un atto in forma pubblica o scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.).
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
La cessione volontaria di un immobile costituisce un contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell'ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude, eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata. Questo non esclude che un bene immobile possa essere trasferito all'ente pubblico a mezzo di un contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica. Occorre quindi distinguere se in pratica ci si sia avvalsi dell'uno o dell'altro strumento contrattuale (anche ai fini dell'applicabilità di istituti connessi alla procedura pubblicistica dell'espropriazione, quali la determinazione dell'indennizzo secondo i canoni legali e la retrocessione del bene ove l'opera pubblica non sia stata realizzata). Elementi costitutivi indispensabili per configurare la cessione volontaria (che valgono, altresì, a differenziarla dalla compravendita) sono secondo la giurisprudenza:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante, che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente);
c) il prezzo di cessione deve essere obbligatoriamente correlato ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante in caso di espropriazione, parametri dai quali non è possibile discostarsi (ex multis CDS 874/2007; Cassazione civile, sez. I, 11 marzo 2006, n. 5390).
Si tenga presente tra l'altro che il trattamento fiscale degli atti di cessione volontaria è più favorevole ripetto agli ordinari atti di compravendita, e questo costituisce un ulteriore elemento di distinzione tra i due tipi di atti.
Si ritiene in dottrina e giurisprudenza che la natura dell'atto di cessione si collochi in un ambito promiscuo tra il diritto pubblico e il diritto privato: infatti viene per lo più considerato un contratto pubblicistico la cui conclusione è, allo stesso tempo, soggetta alla disciplina privatistica, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell'amministrazione espropriante, ma dall'incontro paritetico delle volontà: gli effetti traslativi della proprietà traggono origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell'ente, con il quale le parti concludono in via negoziale la vicenda ablatoria.
Nel sistema della legge generale sull'espropriazione di pubblica utilità, la cessione volontaria, siccome regolata da disposizioni di carattere inderogabile e tassativo, ha dunque natura di negozio di diritto pubblico, che assolve alla funzione propria del decreto di espropriazione di segnare l'acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d'esecuzione dell'opera pubblica. Da tale equiparazione discende la necessaria conseguenza che, anche nell'ipotesi di acquisto del bene a mezzo di cessione volontaria, una volta pronunciata l'espropriazione e trascritto il relativo procedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità. Sicché, il terzo che pretenda di far valere il diritto di proprietà (ad esempio per intervenuta usucapione) su tutto o parte del bene già trasferito all'espropriante non può proporre azione di rivendicazione in favore dell'espropriante, ma deve far valere il proprio diritto nei confronti dell'espropriato, sull'indennità di espropriazione. Infatti, ai sensi dell'art. 34, secondo comma, TUE: «dopo la trascrizione del decreto di esproprio o dell'atto di cessione, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità». Sull'applicazione giurisprudenziale di tali principi si veda fra le altre Cassazione civile, sez. II, 24 giugno 2008, n. 17172. Inoltre, ai sensi dell'art. 45.3 TUE: «l'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato». L'equiparazione con il decreto di esproprio comporta che il terzo, che ritenga di avere un diritto sull'indennità, possa proporre opposizione al giudice ordinario (Corte d'Appello), mentre chi è stato chiamato a concludere l'accordo può impugnarlo, in linea di massima, innanzi al giudice amministrativo. Da tenere presente peraltro che, in tema di cessione volontaria, l'inadempimento da parte dell'espropriante con acquisizione alla proprietà pubblica avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, comporta una sua responsabilità di natura contrattuale con obbligo di risarcire il danno, stante la non restituibilità del bene. La causa, al pari di tutte le controversie contrattuali, rientra nella giurisdizione del g.o., quale giudice dei diritti, senza che rilevi, ai fini della giurisdizione, l'emanazione, ai sensi dell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, di provvedimento di acquisizione sanante, in quanto, a prescindere dall'impossibilità di applicazione retroattiva della norma nel caso di dichiarazione di pubblica utilità emessa anteriormente alla sua entrata in vigore, è lo stesso art. 43 cit. che attribuisce la giurisdizione al g.a. nella diversa ipotesi di impugnazione di provvedimenti amministrativi ove sia esercitata un'azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico (si veda in proposito Cassazione civile, sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26732).
Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, siccome nell'ambito della cessione volontaria la somma pattuita, come abbiamo visto, non è un corrispettivo rimesso alla libera determinazione delle parti, bensì una indennità commisurata al paramento legale, non risulterebbero applicabili le disposizioni in materia di risoluzione e di rescissione del contratto. Ne consegue però che, se la manifestazione di volontà delle parti è riferita ad un prezzo che non sia stato ricavato dall'Amministrazione sulla base dei summenzionati criteri legali, viene a mancare ogni efficacia negoziale pubblicistica, e vi è solo un contratto avente natura privatistica (con conseguente giurisdizione del giudice ordinario CASS. S.U. 4632/2007). In giurisprudenza, inoltre, è stata più volte sancita l'ammissibilità dell'azione di nullità e di annullamento del contratto di cessione volontaria (si veda fra tutte CASS. 8969/2000). La nullità può riguardare anche una singola clausola, come a volte accade per quella determinativa del prezzo. La cessione volontaria è caratterizzata, come abbiamo visto, dalla inderogabilità delle regole sulla determinazione dell'indennità di esproprio, sicché nel caso di deroga va sostituito l'importo pattuito applicando i criteri legali, sanando così la nullità relativa della clausola (Cassazione civile, sez. I, 5 luglio 2000, n. 8969).
Da tenere presente che, ai sensi dell'art. 45.1 TUE, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio». Il termine iniziale è dunque costituito dalla dichiarazione della pubblica utilità; prima di tale evento le parti non possono stipulare l'atto di cessione, mentre il termine finale è costituito dalla data di esecuzione del decreto di esproprio, in quanto è con l'esecuzione del decreto che si produce l'effetto traslativo del bene (la stipula dell'atto di cessione dopo la esecuzione sarebbe a tutti gli effetti nullo per mancanza dell'oggetto). Il testo unico, art. 20, disciplina l'ipotesi in cui, una volta condivisa la determinazione della misura dell'indennità, non sia stipulato l'atto di cessione per rifiuto o inadempimento del proprietario: “9. Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
12. L'autorità espropriante, anche su richiesta del promotore dell'espropriazione, può altresì emettere ed eseguire il decreto di esproprio, dopo aver ordinato il deposito dell'indennità condivisa presso la Cassa depositi e prestiti qualora il proprietario abbia condiviso la indennità senza dichiarare l'assenza di diritti di terzi sul bene, ovvero qualora non effettui il deposito della documentazione di cui al comma 8 nel termine ivi previsto ovvero ancora non si presti a ricevere la somma spettante.”
Non risulta, invece, disciplinata legislativamente l'ipotesi che la mancata stipula dipenda dall'autorità espropriante, ma a tale lacuna ha sopperito la giurisprudenza. Infatti il mancato perfezionamento dell'atto di cessione per inerzia della Autorità espropriante o mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità, non producendo alcun effetto traslativo (ricondotto al solo al successivo atto negoziale), comporta automaticamente la perdita di efficacia dell'accordo. Infatti l'accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di espropriazione non comporta una cessione volontaria del bene che renda non più necessario il completamento del procedimento espropriativo al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante. Peraltro, non essendo l'amministrazione che ha iniziato un siffatto procedimento obbligata per legge a completarlo, non è configurabile in capo al privato che abbia concluso detto accordo un diritto ad essere espropriato, ma solo un diritto a ricevere l'indennità nella misura concordata quando l'esproprio abbia luogo, mentre, se il procedimento non si conclude con l'espropriazione, viene meno, come detto, l'efficacia dell'accordo (ex plurimis CASS 9925/2005).
Ricordiamo che, una volta concordata l'indennità offerta, l'autorità espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio. Ovviamente al proprietario che abbia accettato l'indennità offerta spetta l'importo di cui all'articolo 45 TUE, comma 2, anche nel caso in cui l'autorità espropriante abbia emesso il decreto di espropriazione ai sensi dei commi 10 e 12 art. 20 TUE.
Il negozio di cessione volontaria concluso da un'amministrazione comunale nell'ambito di un procedimento espropriativo si deve ritenere soggetto, al pari di ogni contratto stipulato dalle pubbliche amministrazioni, all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica, primo fra tutti il requisito della forma scritta "ad substantiam", che ne costituisce elemento essenziale avente funzione costitutiva e non dichiarativa, conseguendone che la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, specie per quanto attiene all'obbligazione di pagare il prezzo da parte dell'amministrazione, non può essere fornita attraverso la confessione o il riconoscimento di debito (Cassazione civile, sez. I, 15 gennaio 2007, n. 621)
L'Autorità espropriante è tenuta per legge alla successiva trascrizione ai sensi dell'art. 2010, che presuppone un atto in forma pubblica o scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.).
Avv. Giuseppe Spanò
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lunedì 1 febbraio 2010
VA ANNULLATA LA PROCEDURA DI ESPROPRIAZIONE SE I PROPRIETARI NON VENGONO TEMPESTIVAMENTE INFORMATI
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Nei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, per le problematiche sociali che riveste la materia, particolare attenzione deve essere data a coloro che subiscono la perdita totale o parziale dei propri beni. Il testo unico espropri si è caratterizzato per le numerose norme al suo interno che riguardano la fondamentale partecipazione degli espropriandi al procedimento. In tal modo viene a concretizzarsi uno dei principi cardine che deve sorreggere l'azione della PA, ossia la trasparenza amministrativa ed inoltre la corretta gestione della procedura ha anche un evidente scopo deflattivo del contenzioso. La sentenza Tar Lazio n. 41 del 5 gennaio 2010, riafferma il sacrosanto principio che in tema di espropriazione, al privato proprietario di un'area interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento.
Nella fattispecie sottoposta al Tribunale Amministrativo i ricorrenti hanno lamentato la violazione delle garanzie di informazione e di partecipazione al procedimento, non essendo stato loro consentito di interloquire tempestivamente con le amministrazioni procedenti, in ordine all'approvazione del progetto incidente sui beni di proprietà ed alla modulazione dello stesso.
In proposito il Tar richiama un chiaro e consolidato indirizzo giurisprudenziale (C. Stato, A. P. 20 dicembre 2002, n. 8; 24 gennaio 2000, n. 2; 15 settembre 1999, n. 14), dal quale ritiene di non discostarsi, che afferma il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, essendo preciso onere della amministrazione comunicare agli interessati l'avvio del procedimento sin dalla fase procedimentale preordinata alla dichiarazione di pubblica utilità, per mezzo della quale i beni dei privati sono immediatamente sottoposti ad una precisa qualità giuridica di subordinazione alla realizzazione di un'opera pubblica ed al conseguente regime di espropriabilità.
E’ stato anche precisato che, in tema di provvedimenti ablatori, l'obbligo di avviso di avvio del procedimento ex art. 7, l. 241/1990 non costituisce un adempimento formalistico, essendo finalizzato invece alla realizzazione del principio sostanziale della partecipazione procedimentale, diretto a consentire al privato di avere conoscenza del provvedimento in itinere ed, eventualmente, di interloquire con l’amministrazione introducendo nella dinamica procedimentale l’apprezzamento degli interessi di cui è portatore, per consentirne la comparazione con gli altri interessi coinvolti, pubblici e privati.
Ne deriva che il mancato avviso personale imposto dall'art. 7 l. 241/1990, non superato dalla prova di conoscenza aliunde o dalla effettiva partecipazione al procedimento autonomo prodromico alla declaratoria di pubblica utilità di un'opera, rende illegittimo il provvedimento conclusivo dello stesso (C. Stato, IV, 24.2.2000, n. 1016).
Nella specie, risulta pacifico dal fascicolo di causa che il Comune di Roma non ha informato i ricorrenti dell'esistenza del procedimento espropriativo connesso al primo atto deliberativo del procedimento.
Né può applicarsi l'art. 21 octies della l. 241/90, il quale dispone che non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti qualora, per la sua natura vincolata, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, atteso che va esclusa la natura vincolata degli atti non partecipati, di carattere discrezionale, e che la resistente amministrazione non ha dimostrato che il tenore degli atti impugnati non sarebbe mutato in caso di regolare comunicazione dell'avvio del procedimento.
Detta omissione comporta quindi la illegittimità del procedimento espropriativo.
Il rilevato vizio, di valenza assorbente ogni altra censura pure formulata, si estende a tutti gli atti intervenuti nell’espropriazione di cui trattasi, ivi compreso il pronunziato esproprio, fatto oggetto di impugnazione per illegittimità derivata a mezzo di motivi aggiunti.
Per tutto quanto sopra, detto il Tar ha accolto conseguentemente il ricorso disponendo l’annullamento degli atti impugnati.
Nella fattispecie sottoposta al Tribunale Amministrativo i ricorrenti hanno lamentato la violazione delle garanzie di informazione e di partecipazione al procedimento, non essendo stato loro consentito di interloquire tempestivamente con le amministrazioni procedenti, in ordine all'approvazione del progetto incidente sui beni di proprietà ed alla modulazione dello stesso.
In proposito il Tar richiama un chiaro e consolidato indirizzo giurisprudenziale (C. Stato, A. P. 20 dicembre 2002, n. 8; 24 gennaio 2000, n. 2; 15 settembre 1999, n. 14), dal quale ritiene di non discostarsi, che afferma il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, essendo preciso onere della amministrazione comunicare agli interessati l'avvio del procedimento sin dalla fase procedimentale preordinata alla dichiarazione di pubblica utilità, per mezzo della quale i beni dei privati sono immediatamente sottoposti ad una precisa qualità giuridica di subordinazione alla realizzazione di un'opera pubblica ed al conseguente regime di espropriabilità.
E’ stato anche precisato che, in tema di provvedimenti ablatori, l'obbligo di avviso di avvio del procedimento ex art. 7, l. 241/1990 non costituisce un adempimento formalistico, essendo finalizzato invece alla realizzazione del principio sostanziale della partecipazione procedimentale, diretto a consentire al privato di avere conoscenza del provvedimento in itinere ed, eventualmente, di interloquire con l’amministrazione introducendo nella dinamica procedimentale l’apprezzamento degli interessi di cui è portatore, per consentirne la comparazione con gli altri interessi coinvolti, pubblici e privati.
Ne deriva che il mancato avviso personale imposto dall'art. 7 l. 241/1990, non superato dalla prova di conoscenza aliunde o dalla effettiva partecipazione al procedimento autonomo prodromico alla declaratoria di pubblica utilità di un'opera, rende illegittimo il provvedimento conclusivo dello stesso (C. Stato, IV, 24.2.2000, n. 1016).
Nella specie, risulta pacifico dal fascicolo di causa che il Comune di Roma non ha informato i ricorrenti dell'esistenza del procedimento espropriativo connesso al primo atto deliberativo del procedimento.
Né può applicarsi l'art. 21 octies della l. 241/90, il quale dispone che non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti qualora, per la sua natura vincolata, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, atteso che va esclusa la natura vincolata degli atti non partecipati, di carattere discrezionale, e che la resistente amministrazione non ha dimostrato che il tenore degli atti impugnati non sarebbe mutato in caso di regolare comunicazione dell'avvio del procedimento.
Detta omissione comporta quindi la illegittimità del procedimento espropriativo.
Il rilevato vizio, di valenza assorbente ogni altra censura pure formulata, si estende a tutti gli atti intervenuti nell’espropriazione di cui trattasi, ivi compreso il pronunziato esproprio, fatto oggetto di impugnazione per illegittimità derivata a mezzo di motivi aggiunti.
Per tutto quanto sopra, detto il Tar ha accolto conseguentemente il ricorso disponendo l’annullamento degli atti impugnati.
avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
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giovedì 7 gennaio 2010
CEDU -Grande Camera- INVERSIONE GIURISPRUDENZIALE NELL'AMBITO DELL'ESPROPRIAZIONE ILLEGITTIMA
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La controversia nasce da un ricorso (n. 58858/00) presentato da tre cittadini contro lo Stato Italiano. I ricorrenti hanno investito la Corte Europea il 7 aprile 2000 ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali. Con una sentenza dell'8 dicembre 2005 la Corte aveva giudicato che l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti non era compatibile con il principio di legalità e che, perciò, vi era stata violazione dell'articolo 1 del protocollo n. 1 (Guiso-Gallisay c. Italia, n. 58858/00, §§ 96-97, e punto 2 del dispositivo, 8 dicembre 2005). In applicazione dell'articolo 41 della Convenzione, i ricorrenti avevano insistito per ottenere una somma corrispondente al valore dei terreni controversi, dedotta l'indennità ottenuta sul piano nazionale, ed aumentata del valore delle costruzioni realizzate sui loro terreni. Chiedevano anche una somma a titolo di rimborso dell'imposta alla fonte, imposta alla quale erano state sottoposte le somme riconosciute dal Tribunale di Nuoro il 14 luglio 1997. Sollecitavano inoltre un'indennità per danno morale e chiedevano il rimborso delle spese di giustizia impegnate dinanzi alle giurisdizioni nazionali e delle spese esposte dinanzi alla Corte europea.
Il termine fissato dalla Corte per permettere alle parti di raggiungere un accordo amichevole era scaduto però senza che le parti trovassero un accordo.
Nella sua sentenza del 21 ottobre 2008, la Camera ha proceduto ad un'inversione di giurisprudenza con riguardo all'applicazione dell'articolo 41 nei casi di espropriazione indiretta. Ricordiamo che l'art. 41 statuisce: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
Nell'ambito della pronuncia del 2008, la Camera, con sei voti contro uno, ha:
- abbandonato il metodo abituale di calcolo del risarcimento danni, fino ad allora basato sul valore di mercato attualizzato del terreno, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti dall'espropriante;
- adottato un metodo nuovo, fondato sul valore di mercato del bene alla data in cui gli interessati hanno la certezza giuridica di avere perso il loro diritto di proprietà. Su detta somma decorrono gli interessi legali dal giorno della pronuncia della sentenza della Corte, decurtando l'indennità eventualmente già ricevuta.
La Camera ha giustificato la citata inversione con:
- il timore di introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria;
- la preoccupazione non di lasciare posto all'arbitrio;
- il rifiuto di attribuire alla compensazione uno scopo punitivo o dissuasivo per lo Stato, in luogo di una funzione compensativa per il ricorrente;
- il cambiamento della legislazione italiana (legge finanziaria 2007) intervenuto in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 22 ottobre 2007, legislazione che prevede che, in caso di espropriazione indiretta, la compensazione deve corrispondere al valore venale dei beni, nessuna riduzione essendo ammessa.
La Corte ha assegnato ai ricorrenti 1.803.374 euro per danno materiale, 45.000 euro per danno morale e 30.000 euro per spese e costi.
Il 30 ottobre 2008 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 Conv. e 73 Reg. Uno dei Collegi della Grande Camera ha accolto la domanda il 26 gennaio 2009. Riferendosi alla giurisprudenza fino ad allora consolidata della Corte, in particolare alla sentenza Scordino c. Italia (n. 3), i ricorrenti hanno chiesto alla Grande Camera di condannare lo Stato Italiano alla restituzione dei loro i terreni e, in mancanza di restituzione, che lo Stato Italiano versasse una somma equivalente al valore dei terreni nel 2009, più il costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. In sede di commento è opportuno soffermarsi sulle varie pronunce della Corte i cui principi sono stati richiamati dai ricorrenti.
In materia di privazione arbitraria di beni, la Corte aveva iniziato il suo filone giurisprudenziale con la sentenza Papamichalopoulos ed altri c. Grecia. In tale sede era stato deciso che lo Stato resistente dovesse versare agli interessati, per l'usurpazione da parte delle autorità dei loro terreni, una somma equivalente al valore attuale di questi, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti. Questa linea interpretativa era stata seguita nelle sentenze Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia ((soddisfazione equa), n. 31524/96, 30 ottobre 2003) e Carbonara e Ventura c. Italia (soddisfazione equa), n. 24638/94, 11 dicembre 2003), riguardanti sempre casi di espropriazione illegittima. In mancanza di restituzione dei terreni, la Corte aveva assegnato a titolo di danno materiale somme che prendevano in considerazione il valore attuale dei beni sul mercato immobiliare al momento dalla pronuncia della sentenza. Inoltre, aveva cercato di compensare ulteriormente le perdite subite considerando il potenziale del terreno in causa, calcolato a partire dal costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. Questa giurisprudenza era stata ratificata dalla Grande Camera nella sentenza Scordino c. Italia (n. 1) ((GC), n. 36813/97, §§ 250-254, CEDU 2006 – V). Le sentenze Scordino c. Italia (n. 3) e Pasculli c. Italia ((soddisfazione equa), n. 36818/97, 4 dicembre 2007) avevano infine seguito ed applicato questa giurisprudenza.
La Grande Camera, con sentenza del 22 dicembre 2009, ha stabilito la necessità di applicare nuovi principi alle controversie relative alle espropriazioni illegittime. Pur riconoscendo che i ricorrenti hanno diritto al valore pieno ed intero dei beni, la Grande Camera ha ritenuto che la data da prendere in considerazione per quantificare il danno materiale non deve essere quella della pronunzia della sentenza della Corte, ma quella della perdita di proprietà dei terreni. Infatti, il precedente orientamento giurisprudenziale potrebbe lasciare posto ad un margine d' incertezza, o di arbitrio. D'altra parte, secondo la Grande Camera, il criterio adottato in precedenza -ossia quantificare il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed il mancato godimento del bene automaticamente corrispondente al valore delle opere costruite dallo Stato aggiunto al valore di mercato attualizzato dei terreni alla data della sentenza della Corte di Strasburgo- non trova concreta giustificazione. Questo metodo può infatti introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria. Inoltre, questo metodo attribuisce alla compensazione per danno materiale uno scopo punitivo o dissuasivo nei confronti dello Stato resistente, in luogo di una funzione compensativa per i ricorrenti (come peraltro già affermato dalla Camera nella sentenza del 2008).
La Grande Camera ha ritenuto che il nuovo orientamento potrà essere applicato dalle giurisdizioni italiane alle controversie che dovranno decidere.
La Grande Camera ha dunque stabilito di non tenere più conto, per valutare il danno materiale, del costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato sui terreni ablati, riconoscendo ragionevole accordare ai ricorrenti la somma di 2.100.000 euro più ogni importo eventualmente dovuto a titolo d' imposta su questa somma.
La Corte ha ritenuto inoltre di dover prendere in considerazione il pregiudizio derivato dall'indisponibilità dei terreni per il periodo che va dall'inizio dell'occupazione (1977) al momento della perdita della proprietà (1983), assegnando ai tre ricorrenti congiuntamente 45.000 euro, importo dal quale deve essere dedotta la somma già ottenuta dai ricorrenti a livello interno a titolo di indennità d'occupazione.
Anche la sensazione d'impotenza e di frustrazione di fronte all'espropriazione illegale dei beni, avendo causato ai ricorrenti un pregiudizio morale importante, secondo la decisione in commento deve essere riparata in modo adeguato, con il riconoscimento per ogni ricorrente di 15.000 euro (45.000 euro in totale).
La Corte ha confermato che le indennità assegnate devono essere aumentate in funzione delle spese e costi supplementari causati dalla procedura dinanzi alla Grande Camera e per tale motivo ha liquidato ai ricorrenti congiuntamente 35.000 euro oltre IVA.
La Corte, infine, ha riconosciuto il tasso degli interessi moratori pari al tasso d'interesse della Banca Centrale Europea aumentato di tre punti percentuali.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
Il termine fissato dalla Corte per permettere alle parti di raggiungere un accordo amichevole era scaduto però senza che le parti trovassero un accordo.
Nella sua sentenza del 21 ottobre 2008, la Camera ha proceduto ad un'inversione di giurisprudenza con riguardo all'applicazione dell'articolo 41 nei casi di espropriazione indiretta. Ricordiamo che l'art. 41 statuisce: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
Nell'ambito della pronuncia del 2008, la Camera, con sei voti contro uno, ha:
- abbandonato il metodo abituale di calcolo del risarcimento danni, fino ad allora basato sul valore di mercato attualizzato del terreno, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti dall'espropriante;
- adottato un metodo nuovo, fondato sul valore di mercato del bene alla data in cui gli interessati hanno la certezza giuridica di avere perso il loro diritto di proprietà. Su detta somma decorrono gli interessi legali dal giorno della pronuncia della sentenza della Corte, decurtando l'indennità eventualmente già ricevuta.
La Camera ha giustificato la citata inversione con:
- il timore di introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria;
- la preoccupazione non di lasciare posto all'arbitrio;
- il rifiuto di attribuire alla compensazione uno scopo punitivo o dissuasivo per lo Stato, in luogo di una funzione compensativa per il ricorrente;
- il cambiamento della legislazione italiana (legge finanziaria 2007) intervenuto in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 22 ottobre 2007, legislazione che prevede che, in caso di espropriazione indiretta, la compensazione deve corrispondere al valore venale dei beni, nessuna riduzione essendo ammessa.
La Corte ha assegnato ai ricorrenti 1.803.374 euro per danno materiale, 45.000 euro per danno morale e 30.000 euro per spese e costi.
Il 30 ottobre 2008 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 Conv. e 73 Reg. Uno dei Collegi della Grande Camera ha accolto la domanda il 26 gennaio 2009. Riferendosi alla giurisprudenza fino ad allora consolidata della Corte, in particolare alla sentenza Scordino c. Italia (n. 3), i ricorrenti hanno chiesto alla Grande Camera di condannare lo Stato Italiano alla restituzione dei loro i terreni e, in mancanza di restituzione, che lo Stato Italiano versasse una somma equivalente al valore dei terreni nel 2009, più il costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. In sede di commento è opportuno soffermarsi sulle varie pronunce della Corte i cui principi sono stati richiamati dai ricorrenti.
In materia di privazione arbitraria di beni, la Corte aveva iniziato il suo filone giurisprudenziale con la sentenza Papamichalopoulos ed altri c. Grecia. In tale sede era stato deciso che lo Stato resistente dovesse versare agli interessati, per l'usurpazione da parte delle autorità dei loro terreni, una somma equivalente al valore attuale di questi, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti. Questa linea interpretativa era stata seguita nelle sentenze Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia ((soddisfazione equa), n. 31524/96, 30 ottobre 2003) e Carbonara e Ventura c. Italia (soddisfazione equa), n. 24638/94, 11 dicembre 2003), riguardanti sempre casi di espropriazione illegittima. In mancanza di restituzione dei terreni, la Corte aveva assegnato a titolo di danno materiale somme che prendevano in considerazione il valore attuale dei beni sul mercato immobiliare al momento dalla pronuncia della sentenza. Inoltre, aveva cercato di compensare ulteriormente le perdite subite considerando il potenziale del terreno in causa, calcolato a partire dal costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. Questa giurisprudenza era stata ratificata dalla Grande Camera nella sentenza Scordino c. Italia (n. 1) ((GC), n. 36813/97, §§ 250-254, CEDU 2006 – V). Le sentenze Scordino c. Italia (n. 3) e Pasculli c. Italia ((soddisfazione equa), n. 36818/97, 4 dicembre 2007) avevano infine seguito ed applicato questa giurisprudenza.
La Grande Camera, con sentenza del 22 dicembre 2009, ha stabilito la necessità di applicare nuovi principi alle controversie relative alle espropriazioni illegittime. Pur riconoscendo che i ricorrenti hanno diritto al valore pieno ed intero dei beni, la Grande Camera ha ritenuto che la data da prendere in considerazione per quantificare il danno materiale non deve essere quella della pronunzia della sentenza della Corte, ma quella della perdita di proprietà dei terreni. Infatti, il precedente orientamento giurisprudenziale potrebbe lasciare posto ad un margine d' incertezza, o di arbitrio. D'altra parte, secondo la Grande Camera, il criterio adottato in precedenza -ossia quantificare il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed il mancato godimento del bene automaticamente corrispondente al valore delle opere costruite dallo Stato aggiunto al valore di mercato attualizzato dei terreni alla data della sentenza della Corte di Strasburgo- non trova concreta giustificazione. Questo metodo può infatti introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria. Inoltre, questo metodo attribuisce alla compensazione per danno materiale uno scopo punitivo o dissuasivo nei confronti dello Stato resistente, in luogo di una funzione compensativa per i ricorrenti (come peraltro già affermato dalla Camera nella sentenza del 2008).
La Grande Camera ha ritenuto che il nuovo orientamento potrà essere applicato dalle giurisdizioni italiane alle controversie che dovranno decidere.
La Grande Camera ha dunque stabilito di non tenere più conto, per valutare il danno materiale, del costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato sui terreni ablati, riconoscendo ragionevole accordare ai ricorrenti la somma di 2.100.000 euro più ogni importo eventualmente dovuto a titolo d' imposta su questa somma.
La Corte ha ritenuto inoltre di dover prendere in considerazione il pregiudizio derivato dall'indisponibilità dei terreni per il periodo che va dall'inizio dell'occupazione (1977) al momento della perdita della proprietà (1983), assegnando ai tre ricorrenti congiuntamente 45.000 euro, importo dal quale deve essere dedotta la somma già ottenuta dai ricorrenti a livello interno a titolo di indennità d'occupazione.
Anche la sensazione d'impotenza e di frustrazione di fronte all'espropriazione illegale dei beni, avendo causato ai ricorrenti un pregiudizio morale importante, secondo la decisione in commento deve essere riparata in modo adeguato, con il riconoscimento per ogni ricorrente di 15.000 euro (45.000 euro in totale).
La Corte ha confermato che le indennità assegnate devono essere aumentate in funzione delle spese e costi supplementari causati dalla procedura dinanzi alla Grande Camera e per tale motivo ha liquidato ai ricorrenti congiuntamente 35.000 euro oltre IVA.
La Corte, infine, ha riconosciuto il tasso degli interessi moratori pari al tasso d'interesse della Banca Centrale Europea aumentato di tre punti percentuali.
Avv. Giuseppe Spanò
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giovedì 17 dicembre 2009
INDENNITÀ DI ESPROPRIO DI AREE EDIFICABILI: BREVE ANALISI DELLE PROBLEMATICHE.
00:19 |
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In forza dell'art.1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo del 4.11.1950 "Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
L'interpretazione, da parte della Corte di Strasburgo, del summenzionato Protocollo, ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte Europea incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione. Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana portavano alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale) del bene, la Corte europea aveva dichiarato che l'Italia aveva il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
In seguito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006 nella causa Scordino contro Italia, aveva fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione; c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale; d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene; e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo».
La Corte Costituzionale, con la sentenza 24 ottobre 2007 n. 348, preso atto dell'orientamento della Corte di Strasburgo aveva sancito: a) la Convenzione CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Pertanto non si può risolvere il contrasto della norma italiana con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con quella europea. Le Risoluzioni e Raccomandazioni del Comitato dei ministri si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare la Corte Costituzionale, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni; b) né il criterio del valore venale, né alcuno dei criteri mediati prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene; c) la normativa italiana in materia di indennità di esproprio per aree edificabili, che prevede un'indennità oscillante nella pratica tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale; d) l'indennità in esame è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale (attestandosi l'indennità, di fatto, su un valore paro circa al 20 per cento rispetto al valore di mercato del bene ablato). Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà; e) non emergono profili di incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all'art. 42 Cost.; f) deve valutare il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte Europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti; g) certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo; h) esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento» all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Quanto detto è conforme, peraltro, a quella «relatività dei valori» affermata ripetutamente dalla Corte Costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite dalla legge in via generale.
Il legislatore italiano è prontamente intervenuto - con maggiore perspicacia e lungimiranza rispetto a quanto richiesto dalla Corte Costituzionale - per fissare i nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di aree edificabili riformulando i primi due commi dell'art. 37 D.P.R. 327/2001 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), che adesso testualmente recitano: “L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del venticinque per cento.
Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento”.
Ai sensi della legge n. 244 del 2007 articolo 2, comma 90 (con riguardo al regime transitorio), le disposizioni di cui all'articolo 37, commi 1 e 2 nella nuova formulazione, così come quelle di cui all'articolo 45, comma 2, lettera a) del Testo Unico Espropri, si applicano da subito a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell'indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile.
Sul regime transitorio la Corte di Cassazione, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale ha ribadito che l'indennità di esproprio di aree edificabili deve pertanto essere necessariamente riconosciuta pari al valore venale integrale, sia che si ritenga applicabile anche ai giudizi in corso la legge 24 dicembre 2007 n. 244 (in questo senso Cassazione 16 luglio 2008 n. 19591 e 10 aprile 2008 n. 8321), sia nell'ipotesi che si ritenga, invece, applicabile la legge “fondamentale” del 25.6.1865 n. 2359 (Cass. Sez. un. n. 5269/2008; Cass. n. 11480/2008; Cass. 14082/2009). Quest'ultimo orientamento giurisprudenziale (maggioritario) ritiene infatti non applicabile lo jus superveniens costituito dalla L. n. 244 del 2007 art. 2, commi 89 e 90, dato che la norma intertemporale di cui al menzionato comma 90 prevede una limitata retroattività solo con riferimento “ai procedimenti espropriativi” e non anche ai “giudizi in corso”, stabilendo che una volta venuto meno a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla menzionata sentenza 348/2007, il criterio riduttivo di indennizzo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, torna nuovamente applicabile il criterio generale dell'indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 (Cass. 17 giugno 2009, n. 14082).
In merito alla nuova indennità di espropriazione è opportuno fare alcune considerazioni: 1) la scelta del legislatore di riferirsi al valore venale integrale risulta essere sicuramente apprezzabile e opportuna in quanto elimina, in radice, quelle ambiguità alla base della normativa precedente che hanno moltiplicato il contenzioso per anni (la Corte Costituzionale, peraltro, aveva ancora una volta “suggerito” al legislatore soluzioni di compromesso sicuramente deleterie); 2) la nuova normativa porta ad un effetto deflattivo del contenzioso senza, in ogni caso, appesantire oltre misura le finanze pubbliche in quanto, nell'ambito delle procedure espropriative, le aree edificabili risultano essere statisticamente assai limitate, essendo prevalentemente colpite le aree agricole; 3) anche la maggiorazione del 10% sul valore venale rientra nella scelta legislativa di favorire le cessioni volontarie, portando ad una conclusione anticipata della procedura e a forti risparmi di tempo e denaro per le amministrazioni pubbliche; 4) a tutti gli effetti la procedura espropriativa può essere evitata in diversi casi utilizzando lo strumento della compravendita, strumento di poco interesse in precedenza per l'espropriando. Infatti, secondo gli insegnamenti della Corte dei Conti, gli enti pubblici, nell'utilizzare l'istituto della compravendita invece di procedere all'espropriazione, non potevano discostarsi in ogni caso dai valori dimezzati previsti per l'esproprio dal precedente testo legislativo (dovendo altrimenti utilizzare esclusivamente la procedura espropriativa che avrebbe garantito un risparmio alla pubblica amministrazione). Questo problema, come si può ben comprendere, non esiste più, in quanto in entrambi i casi ci si riferisce al valore venale del bene.
In conclusione possiamo considerare la nuova normativa un felice punto di incontro tra le esigenze della pubblica amministrazione e quelle degli espropriati, permanendo, tuttavia, più di qualche dubbio riguardo all'ipotesi di riduzione dell'indennità del 25% per gli espropri finalizzati ad attuare interventi di riforma economico-sociale, concetto quantomai vago che porterà a notevoli problemi applicativi. Stesse perplessità rimangono per il permanere dell'art. 37, comma 7, che, ricordiamo, prevede una eventuale riduzione dell'indennità espropriativa in base a quanto dichiarato nell'ultima denuncia presentata dall'espropriato ai fini ICI, norma anche questa sicuramente in contrasto con i principi enunciati della Corte di Strasburgo, in quanto può portare in alcuni casi ad indennizzi irrisori ben lontani dal parametro del valore venale del bene.
Peraltro la più recente giurisprudenza della Cassazione ritiene che l'indennità superiore al valore ICI sarebbe erogabile solo dopo la regolarizzazione da parte del proprietario (tra le tante Cass. 30/10/09 n. 23051).
L'interpretazione, da parte della Corte di Strasburgo, del summenzionato Protocollo, ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte Europea incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione. Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana portavano alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale) del bene, la Corte europea aveva dichiarato che l'Italia aveva il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
In seguito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006 nella causa Scordino contro Italia, aveva fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione; c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale; d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene; e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo».
La Corte Costituzionale, con la sentenza 24 ottobre 2007 n. 348, preso atto dell'orientamento della Corte di Strasburgo aveva sancito: a) la Convenzione CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Pertanto non si può risolvere il contrasto della norma italiana con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con quella europea. Le Risoluzioni e Raccomandazioni del Comitato dei ministri si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare la Corte Costituzionale, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni; b) né il criterio del valore venale, né alcuno dei criteri mediati prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene; c) la normativa italiana in materia di indennità di esproprio per aree edificabili, che prevede un'indennità oscillante nella pratica tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale; d) l'indennità in esame è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale (attestandosi l'indennità, di fatto, su un valore paro circa al 20 per cento rispetto al valore di mercato del bene ablato). Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà; e) non emergono profili di incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all'art. 42 Cost.; f) deve valutare il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte Europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti; g) certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo; h) esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento» all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Quanto detto è conforme, peraltro, a quella «relatività dei valori» affermata ripetutamente dalla Corte Costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite dalla legge in via generale.
Il legislatore italiano è prontamente intervenuto - con maggiore perspicacia e lungimiranza rispetto a quanto richiesto dalla Corte Costituzionale - per fissare i nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di aree edificabili riformulando i primi due commi dell'art. 37 D.P.R. 327/2001 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), che adesso testualmente recitano: “L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del venticinque per cento.
Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento”.
Ai sensi della legge n. 244 del 2007 articolo 2, comma 90 (con riguardo al regime transitorio), le disposizioni di cui all'articolo 37, commi 1 e 2 nella nuova formulazione, così come quelle di cui all'articolo 45, comma 2, lettera a) del Testo Unico Espropri, si applicano da subito a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell'indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile.
Sul regime transitorio la Corte di Cassazione, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale ha ribadito che l'indennità di esproprio di aree edificabili deve pertanto essere necessariamente riconosciuta pari al valore venale integrale, sia che si ritenga applicabile anche ai giudizi in corso la legge 24 dicembre 2007 n. 244 (in questo senso Cassazione 16 luglio 2008 n. 19591 e 10 aprile 2008 n. 8321), sia nell'ipotesi che si ritenga, invece, applicabile la legge “fondamentale” del 25.6.1865 n. 2359 (Cass. Sez. un. n. 5269/2008; Cass. n. 11480/2008; Cass. 14082/2009). Quest'ultimo orientamento giurisprudenziale (maggioritario) ritiene infatti non applicabile lo jus superveniens costituito dalla L. n. 244 del 2007 art. 2, commi 89 e 90, dato che la norma intertemporale di cui al menzionato comma 90 prevede una limitata retroattività solo con riferimento “ai procedimenti espropriativi” e non anche ai “giudizi in corso”, stabilendo che una volta venuto meno a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla menzionata sentenza 348/2007, il criterio riduttivo di indennizzo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, torna nuovamente applicabile il criterio generale dell'indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 (Cass. 17 giugno 2009, n. 14082).
In merito alla nuova indennità di espropriazione è opportuno fare alcune considerazioni: 1) la scelta del legislatore di riferirsi al valore venale integrale risulta essere sicuramente apprezzabile e opportuna in quanto elimina, in radice, quelle ambiguità alla base della normativa precedente che hanno moltiplicato il contenzioso per anni (la Corte Costituzionale, peraltro, aveva ancora una volta “suggerito” al legislatore soluzioni di compromesso sicuramente deleterie); 2) la nuova normativa porta ad un effetto deflattivo del contenzioso senza, in ogni caso, appesantire oltre misura le finanze pubbliche in quanto, nell'ambito delle procedure espropriative, le aree edificabili risultano essere statisticamente assai limitate, essendo prevalentemente colpite le aree agricole; 3) anche la maggiorazione del 10% sul valore venale rientra nella scelta legislativa di favorire le cessioni volontarie, portando ad una conclusione anticipata della procedura e a forti risparmi di tempo e denaro per le amministrazioni pubbliche; 4) a tutti gli effetti la procedura espropriativa può essere evitata in diversi casi utilizzando lo strumento della compravendita, strumento di poco interesse in precedenza per l'espropriando. Infatti, secondo gli insegnamenti della Corte dei Conti, gli enti pubblici, nell'utilizzare l'istituto della compravendita invece di procedere all'espropriazione, non potevano discostarsi in ogni caso dai valori dimezzati previsti per l'esproprio dal precedente testo legislativo (dovendo altrimenti utilizzare esclusivamente la procedura espropriativa che avrebbe garantito un risparmio alla pubblica amministrazione). Questo problema, come si può ben comprendere, non esiste più, in quanto in entrambi i casi ci si riferisce al valore venale del bene.
In conclusione possiamo considerare la nuova normativa un felice punto di incontro tra le esigenze della pubblica amministrazione e quelle degli espropriati, permanendo, tuttavia, più di qualche dubbio riguardo all'ipotesi di riduzione dell'indennità del 25% per gli espropri finalizzati ad attuare interventi di riforma economico-sociale, concetto quantomai vago che porterà a notevoli problemi applicativi. Stesse perplessità rimangono per il permanere dell'art. 37, comma 7, che, ricordiamo, prevede una eventuale riduzione dell'indennità espropriativa in base a quanto dichiarato nell'ultima denuncia presentata dall'espropriato ai fini ICI, norma anche questa sicuramente in contrasto con i principi enunciati della Corte di Strasburgo, in quanto può portare in alcuni casi ad indennizzi irrisori ben lontani dal parametro del valore venale del bene.
Peraltro la più recente giurisprudenza della Cassazione ritiene che l'indennità superiore al valore ICI sarebbe erogabile solo dopo la regolarizzazione da parte del proprietario (tra le tante Cass. 30/10/09 n. 23051).
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