Retelegale

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giovedì 17 dicembre 2009
In forza dell'art.1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo del 4.11.1950 "Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
L'interpretazione, da parte della Corte di Strasburgo, del summenzionato Protocollo, ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte Europea incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione. Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana portavano alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale) del bene, la Corte europea aveva dichiarato che l'Italia aveva il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
In seguito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006 nella causa Scordino contro Italia, aveva fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione; c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale; d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene; e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo».
La Corte Costituzionale, con la sentenza 24 ottobre 2007 n. 348, preso atto dell'orientamento della Corte di Strasburgo aveva sancito: a) la Convenzione CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Pertanto non si può risolvere il contrasto della norma italiana con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con quella europea. Le Risoluzioni e Raccomandazioni del Comitato dei ministri si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare la Corte Costituzionale, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni; b) né il criterio del valore venale, né alcuno dei criteri mediati prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene; c) la normativa italiana in materia di indennità di esproprio per aree edificabili, che prevede un'indennità oscillante nella pratica tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale; d) l'indennità in esame è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale (attestandosi l'indennità, di fatto, su un valore paro circa al 20 per cento rispetto al valore di mercato del bene ablato). Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà; e) non emergono profili di incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all'art. 42 Cost.; f) deve valutare il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte Europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti; g) certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo; h) esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento» all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Quanto detto è conforme, peraltro, a quella «relatività dei valori» affermata ripetutamente dalla Corte Costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite dalla legge in via generale.
Il legislatore italiano è prontamente intervenuto - con maggiore perspicacia e lungimiranza rispetto a quanto richiesto dalla Corte Costituzionale - per fissare i nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di aree edificabili riformulando i primi due commi dell'art. 37 D.P.R. 327/2001 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), che adesso testualmente recitano: “L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del venticinque per cento.
Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento”.
Ai sensi della legge n. 244 del 2007 articolo 2, comma 90 (con riguardo al regime transitorio), le disposizioni di cui all'articolo 37, commi 1 e 2 nella nuova formulazione, così come quelle di cui all'articolo 45, comma 2, lettera a) del Testo Unico Espropri, si applicano da subito a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell'indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile.
Sul regime transitorio la Corte di Cassazione, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale ha ribadito che l'indennità di esproprio di aree edificabili deve pertanto essere necessariamente riconosciuta pari al valore venale integrale, sia che si ritenga applicabile anche ai giudizi in corso la legge 24 dicembre 2007 n. 244 (in questo senso Cassazione 16 luglio 2008 n. 19591 e 10 aprile 2008 n. 8321), sia nell'ipotesi che si ritenga, invece, applicabile la legge “fondamentale” del 25.6.1865 n. 2359 (Cass. Sez. un. n. 5269/2008; Cass. n. 11480/2008; Cass. 14082/2009). Quest'ultimo orientamento giurisprudenziale (maggioritario) ritiene infatti non applicabile lo jus superveniens costituito dalla L. n. 244 del 2007 art. 2, commi 89 e 90, dato che la norma intertemporale di cui al menzionato comma 90 prevede una limitata retroattività solo con riferimento “ai procedimenti espropriativi” e non anche ai “giudizi in corso”, stabilendo che una volta venuto meno a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla menzionata sentenza 348/2007, il criterio riduttivo di indennizzo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, torna nuovamente applicabile il criterio generale dell'indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 (Cass. 17 giugno 2009, n. 14082).
In merito alla nuova indennità di espropriazione è opportuno fare alcune considerazioni: 1) la scelta del legislatore di riferirsi al valore venale integrale risulta essere sicuramente apprezzabile e opportuna in quanto elimina, in radice, quelle ambiguità alla base della normativa precedente che hanno moltiplicato il contenzioso per anni (la Corte Costituzionale, peraltro, aveva ancora una volta “suggerito” al legislatore soluzioni di compromesso sicuramente deleterie); 2) la nuova normativa porta ad un effetto deflattivo del contenzioso senza, in ogni caso, appesantire oltre misura le finanze pubbliche in quanto, nell'ambito delle procedure espropriative, le aree edificabili risultano essere statisticamente assai limitate, essendo prevalentemente colpite le aree agricole; 3) anche la maggiorazione del 10% sul valore venale rientra nella scelta legislativa di favorire le cessioni volontarie, portando ad una conclusione anticipata della procedura e a forti risparmi di tempo e denaro per le amministrazioni pubbliche; 4) a tutti gli effetti la procedura espropriativa può essere evitata in diversi casi utilizzando lo strumento della compravendita, strumento di poco interesse in precedenza per l'espropriando. Infatti, secondo gli insegnamenti della Corte dei Conti, gli enti pubblici, nell'utilizzare l'istituto della compravendita invece di procedere all'espropriazione, non potevano discostarsi in ogni caso dai valori dimezzati previsti per l'esproprio dal precedente testo legislativo (dovendo altrimenti utilizzare esclusivamente la procedura espropriativa che avrebbe garantito un risparmio alla pubblica amministrazione). Questo problema, come si può ben comprendere, non esiste più, in quanto in entrambi i casi ci si riferisce al valore venale del bene.
In conclusione possiamo considerare la nuova normativa un felice punto di incontro tra le esigenze della pubblica amministrazione e quelle degli espropriati, permanendo, tuttavia, più di qualche dubbio riguardo all'ipotesi di riduzione dell'indennità del 25% per gli espropri finalizzati ad attuare interventi di riforma economico-sociale, concetto quantomai vago che porterà a notevoli problemi applicativi. Stesse perplessità rimangono per il permanere dell'art. 37, comma 7, che, ricordiamo, prevede una eventuale riduzione dell'indennità espropriativa in base a quanto dichiarato nell'ultima denuncia presentata dall'espropriato ai fini ICI, norma anche questa sicuramente in contrasto con i principi enunciati della Corte di Strasburgo, in quanto può portare in alcuni casi ad indennizzi irrisori ben lontani dal parametro del valore venale del bene.
Peraltro la più recente giurisprudenza della Cassazione ritiene che l'indennità superiore al valore ICI sarebbe erogabile solo dopo la regolarizzazione da parte del proprietario (tra le tante Cass. 30/10/09 n. 23051).

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